Con Ennio e Pierpaolo Bellucci
Eccoli questi “segni del silenzio”: mi hanno inondato l’anima e mi hanno detto, con voce lieve e sommessa, quanta vivezza spirituale occorre per restituire alle generazioni che sono e che verranno “l’aspetto più solitario e introspettivo di questi luoghi”. E sono luoghi segnati dallo spirito e dalla mano dell’uomo, che sanno di storia e di arte, che narrano fatiche e raccoglimenti meditativi, che hanno bevuto il solitario conforto della preghiera e sui quali fluisce da secoli quel “flebile pulsare attraverso i pensieri” i quali agiscono nel cuore e nella mente del poeta sciogliendosi in orizzonti infiniti perchè egli possa sentirsi sospeso dentro un tempo che non ha età in quanto non è figlio di “nessun anno e nessun millennio”. E’ questo l’arcano destino del tempo dello spirito che questi “segni del silenzio” custodiscono perchè l’uomo ricordi da dove viene e di quale amalgama è fatto. Me lo sussurrano queste pagine concepite da Ennio e Pierpaolo Bellucci, magicamente catturate dall’obiettivo di Guido e Luciano Paradiso, e vestite a festa in una elegante produzione di “Paper’s World”. Mi sono tornate alla mente le attente parole di Mario Pomilio raccolte in quel viaggio nella “terra dei santi poveri” dal nome aspro, e tuttavia amato, come suona la parola Abruzzo. Sì che – Pomilio lo dice – “anche in fatto di architettura sacra, l’Abruzzo è una regione a sé.
E di chiese, belle e interessanti, potrete cercarne senza dubbio nelle
città, ma tante tra le più notevoli dovrete andare a cercarvele da soli,
in piena campagna, in cima a un colle, al fondo di una valle sassosa
dove la strada carrozzabile non giunge”. Nelle parole di Pomilio sembra
risuonare l’eco della parole di Silone che collega l’aspetto geofisico
della nostra regione all’assunto secondo cui “il profilo spirituale
dell’Abruzzo è stato modellato dal cristianesimo”. Ed ecco il suggello
che è implicito anche in questi “segni del silenzio” che non finisco mai
di guardare e di ascoltare: “L’Abruzzo è stato, attraverso i secoli,
prevalentemente una creazione di santi e lavoratori”. Non dimenticare
mai che i santi d’Abruzzo sono santi poveri come lo sono i santi laici, i
lavoratori, che contribuirono a disegnare - lo ricorda Francesco
Sabatini - quella “specie di simbiosi tra il pastore e l’eremita”, due
solitari cui il destino ha dato per compagni il lavoro, la meditazione,
la preghiera.
L’assunto – non detto, ma presente – che aleggia in queste pagine e
queste immagini, è quello di uno stimolo a ricercare l’anello giusto per
congiungere quel che è stato a quel che rimane. Ed è in quell’esatto
punto di incontro che avvertiamo, segno dopo segno, il sereno respiro di
un silenzio che si innalza verso l’infinito collegando l’umile
testimonianza anche di una sola pietra agli immensi spazi dell’universo.
Passando di pagina in pagina, e veleggiando con la “lieve gravità” della
poesia di Pierpaolo, è come essere al cospetto di un’opera preziosa in
cui sono incastonate perle che evocano “infiniti spazi, silenzi e cielo/
che si perde dove/ l’occhio non può arrivare”. E dove l’occhio non può
arrivare, arriva il soffio di un sentire che ci fa presenti ad una
ricchezza e una sapienza nascoste laddove il tempo e lo spazio si sono
ritagliati i loro “giacigli” dai quali ostinatamente sfidano l’oblio che
l’opera di scienza e di poesia ha l’ardire di ridestare.
Al cospetto di questi tesori, vien voglia di ripetere col saggio Diderot
quel che egli pensò quando volle accarezzare le meraviglie di una
testimonianza riesplosa al sole dopo secoli di buio: “Prima di venire,
ero già qui; ora che vado via, qui rimango”. Miracolo del sentire
dell’uomo che sa vivere la più alta dimensione del proprio essere oltre i
limiti della quotidianità spaziale e temporale.
Ormai l’ho detto. Anch’io sono venuto a questa pagine – e alle immagini e
alla poesia che ne fanno uno scrigno quanto mai prezioso – come un
umile viandante che avverte l’appagante sensazione di uscire dai meandri
di Erebo e dal nero di Notte per ricollegare all’anima universale delle
cose l’ineffabile percezione di essere già stato spiritualmente dove
gli attraversamenti di questa pagine conducono. E – quel che è più
importante – di rimanervi emotivamente anche quando la quotidianità
chiama altrove.
Ecco un libro del quale veramente si può dire che va letto senza
distrazioni. Tanto questa ultima fatica (ma solo in ordine di tempo) di
Giovanni Tordone è ricca di notazioni, riferimenti, richiami storici,
evocazioni che va in ombra la lettura “passatempo” e sale, invece, la
lettura partecipata, una sorta di immedesimazione come a prender parte
al conflitto, che si fa stimolo a chi avrà il privilegio di scorrere
queste pagine, a pensamenti e meditazioni per comprendere da quali
affanni veniamo e di quali eventi si è nutrita la storia che ha figliato
il tempo nuovo.
Il cuore della narrazione di Giovanni è la rivolta popolare del dicembre
1910 che egli generosamente – sia pure tra complici virgolette –
promuove a rivoluzione.
Si ponga attenzione alla ricca ricognizione di fatti, condizione,
personaggi, ordinamenti istituzionali che stanno a monte e intorno a
quella che ha tutti i connotati sociali di una autentica jacquerie di
cui
l’altra storia, quella degli umili e degli offesi di tutti i tempi, è
piena e tra le quali, la più ricordata, è quella antifeudale che
insanguinò le campagne francesi nel lontano 1358. Ci soccorre la memoria se ricordiamo che finanche nella
narrazione delle età faraonica e biblica (si pensi all’avaro cibo degli
schiavi nella costruzione delle piramidi e si pensi alla soffocante
fiscalità cesarea nel corso della dominazione romana) vi sono episodi di
sollevazione delle turbe affamate le quali hanno una parentela storica
con le jacquerie esplose in tempi più vicino a noi. E’ il caso di
ricordare la estesa jacquerie cristiano-popolare del 1381 in Inghilterra
le cui motivazioni sono le stesse della “rivoluzione” del 1910 a
Balsorano: la collera contro il duro regime fiscale. E la storia ci dice
anche di una jacquerie newyorkese di metà Settecento che impegnò
migliaia di emarginati in una rabbiosa rivolta tesa a rompere il
soffocante regime oppressivo dentro il quale fame e fisco costituivano
la miscela esplosiva. Quando il pensiero meridionalista indaga le
coordinate socio-politiche della miseria delle plebi del Mezzogiorno,
scopre le ragioni dei ripetuti episodi di jacquerie che si verificano
per tutto il Settecento e l’Ottocento e che hanno, nella sollevazione di
Balsorano dell’inizio Novecento, forse una delle ultime testimonianze
di quanta verità vi è nel detto popolare secondo cui “la fame caccia il
lupo dalla tana”. E il “lupo”, uscito dalla tana e con dentro di sé la
collera ora per la tassa sul macinato, ora per la tassa sul fuocatico,
ora per la tassa sul porco, non vede altra alternativa che quella di
alzare le urla tanto da dilavare il canto “Sant’Antonio, giglio
giocondo” ripetuto in processione. E quelle urla assumono subito la
carica che tuoni e fulmini hanno prima che si scateni l’uragano. E così
fu con l’assalto ai municipi, l’incendio dei registri delle tasse,
spesso la cattura e lo strapazzo degli “affamatori del popolo” e
talvolta anche morti dall’una e dall’altra parte.
Nell’architettura documentaria del bel volume di Giovanni Tordone, è
vivo il senso della quotidianità che si eleva a evento e si fa storia.
C’è posto per una galassia di fatti che sembrano l’uno figliato
dall’altro. Vi è quel che era Balsorano al compiersi dell’Unità d’Italia
e vi sono i connotati del governo nazionale dell’età
post-risorgimentale; vi sono le pagine struggenti della fuga emigratoria
e vi è la minuta descrizione del livello di povertà dei Balsoranesi
negli anni della sommossa; vi è la scrupolosa ricognizione della
“guerriglia orale” tra i protagonisti del tempo e vi è il rigoroso
reportage delle informative tra le istituzioni coinvolte in quelle
giornate di rabbia e di fuoco; vi è un largo comparto che possiamo
definire “rassegna stampa” che documenta l’attenzione degli organi di
informazione su fatti che oggi sarebbero molto appetiti da radio e
televisione e vi è la risonanza che i fatti e il nome di Balsorano
ebbero alla Camera dei deputati; vi è largo spazio per il processo e le
sentenze e vi è il doveroso gesto rappacificante di solidarietà da parte
del Consiglio Comunale nei confronti dei condannati; vi è la giusta
censura municipale del “comportamento esageratamente repressivo” delle
forze dell’ordine e vi è l’amara sottolineatura di una duplice condanna:
quella inflitta a trentasette Balsonaresi del pagamento di
“tremilacinquecento lire per spese di giustizia” e quella conseguente a
“rimanere nel lastrico” e alla “pizza roscia” dopo il pagamento.
E pagina dopo pagina, con precisione quasi notarile, si
stagliano nell’attenta ricerca di Giovanni Tordone gli spaccati di una
vicenda che ha tanti rapporti di simbiosi con le esplosioni popolari che
stanno a monte, al centro e a valle delle inquietudini maturate sia
sotto la corona borbonica, sia sotto la corona sabauda. Il che dimostra
quanta incidenza ha nella grama vita delle masse affamate l’assioma
riassunto nelle famigerate “3F”: Farina, Feste, Forca. E’ l’ingannevole
infame trittico per tenere a bada chi ha la madia vuota e il gendarme
fuori la porta; la qualcosa, parafrasando, sta alla radice del motto “è
meglio un morto in casa che un marchigiano fuori la porta” dove
marchigiano sta per l’esattore delle tasse per rimpinguare il famelico
erario vaticano a dispetto del mite Francesco d’Assisi per il quale il
danaro non era altro che “lo sterco del diavolo”. E la storia ci dice
quanta avara fu sempre la farina, quanto false e poche furono le feste,
quanto abbondanti invece furono le forche ad onore, gloria e benedizione
del potere di turno che, non sapendo o non volendo riempire gli
stomaci, prendeva l’accorciatoia di eliminarli. E’ vero che a Balsorano,
al seguito dell’indomito Michele Fantauzzi, portabandiera del popolo
insorto, volavano parole che invocavano la benevolenza del “potere
costituito,, come a professare l’ingenua credenza che i Sovrani d’Italia
non potevano essere dalla parte del municipio affamatore, ma la realtà
si rivelò ben diversa. E gli slogans – volando tra i rivoltosi “armati
di ronci, bastoni, badili, vanghe e forconi, con fionde e le saccocce
piene di sassi, molti con tizzoni accesi” – si intrecciavano con
l’osanna al re e alla regina e con la maledizione contro il municipio.
Erano urla di disperazione in un misto di supplica e di collera. Quando,
esattamente alle ore 15 – come annota l’autore – Giovanni Fantauzzi di
Giuseppe spirò perchè colpito alle spalle da colpi di pistola e fucile,
il suo nome andò ad aggiungersi all’elenco degli stomaci eliminati nel
corso delle jacquerie meridionali perchè finalmente non avessero più
fame.
L’intero impianto del libro costituisce un tale ordito narrativo da
richiamare alla mente quei “canovacci” che precedono appena le
sceneggiature cinematografiche. Fatti e personaggi – con le loro miserie
e le loro nobiltà – si incrociano in uno scenario che basta da solo a
farsi invito alla lettura. L’intero volume racchiude un microcosmo nel
quale sono condensate le rivalità, i contrapposti interessi, gli
intrighi, i colpi bassi, le gelosie, i tradimenti, le ipocrisie, le
spregiudicatezze, le furbizie, le arroganze. Ogni personaggio obbedisce
alla “propria” logica che si scontra con quella altrui e il tutto
concorre a far emergere dalla cronaca e dalla storia un mondo di miseria
e di ingiustizie su cui arrivano maldestramente le ragioni del potere.
Ma proprio quando il lettore attento ha accumulato nell’animo l’ansia,
l’angoscia, la tensione per i fatti e i misfatti che si susseguono, ecco
apparire, nelle pagine conclusive del volume, la “ciliegina agrodolce”
di quella che Giovanni - sensibile al senso delle cose e sensibilissimo
al senso dei sentimenti – chiama “tenera e tumultuosa storia d’amore”.
E’ il racconto udito dalla voce della mamma quand’era ragazzo. E’ la
storia di Stella e di Giorgio, lei pastorella lui boscaiolo, le cui
famiglie nemiche ricordano la storia di Romeo e Giulietta presi nel
contrapposto odio tra i Capuleti e i Montecchi. A lettura terminata, un
sospiro di sollievo: l’amore, ancora una volta, vince contro l’odio. Il
lettore legga e rilegga questa dolce storia d’amore che disperde i
malefici della cometa Halley, ricompone l’armonia tra i paesani, fa
pensare a tempi di bonaccia, semina speranze per i giovani sposi,
rasserena l’animo del bel boscaiolo e placa le inquietudini della bella
pastorella che viene benedetta, anzi, ribenedetta dall’arciprete.
Questo è quanto. Il resto – e sono certo che ci sarà – alla prossima
fatica letteraria di Giovanni perchè ci documenti se quel che è avvenuto
a Balsorano dopo la “rivoluzione” del dicembre 1910, ha, e in che
misura, riscattato il mondo di miseria e disperazione di cui queste
pagine sono dolente testimonianza.
Romolo Liberale
Giovanni Tordone, chiamandola “rivoluzione”, ha indubbiamente enfatizzato quella che, a buon diritto, può figurare nelle pagine che narrano le cento e cento jacquerje che sono esplose nel corso dei secoli contro le tirannie, i soprusi, le oppressioni con cui, le classi dominanti, si ingegnavano di perpetuare il proprio potere. I fatti narrati da Giovanni Tordone nel suo lungo, circostanziato, documentato “resoconto” hanno uno stretto “rapporti di parentela” con la condizione umana e sociale che caratterizzava l’intera Valle Roveto ai tempi della “rivoluzione” di Balsorano. La stessa economia stentata, le stesse privazioni, la stessa fame da una parte; gli stessi intriganti, gli stessi maneggioni, gli stessi faccendieri dall’altra.
Per liberarsi da una soggezione troppo a
lungo subita, la sollevazione di Balsorano espode con tutta la collera
che ne giustifica la violenza e che ha in Giovanni Fantauzi, colpito a
morte nel corso degli scontri, il proprio “eroe” contadino. Sembra di
leggere, ante litteram, le pagine del Silone di “Fontamara” che ci
propone quel Berardo Viola che organizza la rivolta contadina contro
l’astuto Impresario che, rubando l’acqua per l’irrigazione, rubava il
futuro ai fontamaresi che si fanno allegoria degli sfruttati del Fucino e
di tutta la terra.
I fatti di Balsorano ci pervengono come dato di una microstoria che ha
radici nella “rabbia” popolare che ha inquietato per secoli le plebi
meridionali per cui le sollevazioni contro i poteri oppressivi sono
documentate in modo particolare per tutto il Settecento e l’Ottocento.
Ma quando si parla di miseria, di ingiustizie, di tirannie, di
sottomissioni non è difficile scoprire fatti e momenti in cui, sia pure a
livello diverso, ogni paese della Valle Roveto ha avuto i propri
momenti di collera e di esplosione. E questo specialmente quando la
miscela esplosiva era fatta da due componenti quanto mai “infiammabili”:
il morso della fame e la soffocante rapina fiscale.
Occupandomi, in altra sede, delle coordinate del libro di Tordone, ebbi
modo di rilevare quanta incidenza ha nella grama vita delle masse
affamate, l’assioma riassunto nelle famigerate “3F” che stanno per
Farina, Feste, Forca. E ricordavo l’ingannevole infame trittico per
tenere a bada chi ha la madia vuota e il gendarme fuori la porta; e come
la figura del gendarme aveva ispirato il motto popolare “meglio un
morto in casa che un marchigiano fuori la porta” dove marchigiano sta
per l’esattore delle tasse per rimpinguare il famelico erario vaticano. E
la storia ci dice quanto avara fu sempre la farina, quanto false e
poche furono le feste, quanto abbondanti invece furono le forche ad
onore e gloria del potere di turno (borbonico, clericale, savoiardo) il
quale, non sapendo o non volendo riempire gli stomaci, prendeva la
scorciatoia di eliminarli perchè così non avessero più fame.
Ora che la Valle Roveto può contare in una voce come “Il Liri” che vuole
dar voce a se stessa nei diversi ambiti di interesse, voglio auspicare
che le ricerche di Giovanni Tordone agiscano come stimolo, specialmente
tra i giovani, per stabilire un rapporto di interesse e di amore per la
terra di cui sono figli; e perchè gli approdi di questo interesse
culturale e di questo amore trovino spazio in questo periodico che sta
appena muovendo i primi passi con la voglia di volare alto e di andare
lontano.
Vi sono tante ragioni per “sfogliare” la Valle Roveto e ridestare
memorie, anche le più antiche, tenendo conto che, fin dai tempi più
lontani, la Valle Roveto e le contrade del Liri sono state itinerari
obbligati di passaggi cui singoli e comunità hanno trovato qui motivi
di vita. E’ avvenuto questo nell’età pre-romana e romana, è avvenuto nel
medioevo e nell’età risorgimentale; è avvenuto negli anni in cui
maturava il riassetto socio-politico portato dall’unità nazionale; ed è
avvenuto in tempi più vicini alla nostra generazione. Una terra che ha
conosciuto guerre di conquista, stazionamenti di invasori,
trasmigrazioni di etnie, dominazioni di potenti, azioni di brigantaggio,
nobiltà di resistenza e infamie di eserciti in fuga, è una terra a cui
attingere copiosamente perchè essa possa avere più giusta collocazione
nelle pagine di storia patria e nella considerazione degli uomini.
L‘abisso dei patimenti, la risalita e il conforto del riscatto, il
sapere e l’eccelsa professionalità, la caduta e il suicidio. Ecco
l’angosciante parabola di una esistenza che si scontra con un mondo di
negazioni, di ipocrisie, di ingratitudini. Tuttavia, un mondo segnato da
un nobile gesto di solidarietà che ripaga antiche frustrazioni e apre
ad un umile lustrascarpe la via della rigenerazione umana e sociale col
vincolo di una riconosciuta professionalità.
Graziano Di Rocco si è tuffato in questo mondo per ritessere - in una
piéce nella quale coinvolgere ragazzi delle scuole medie, dei licei,
degli istituti superiori - tutti i risvolti di una avventura nella quale
un povero pastorello di Morrea si rivelerà provetto maestro della
macchina fotografica.
Graziano fa tutto questo evocando momenti e fatti della storia mondiale
che ha figliato nuovi assetti della scena geo-politica dove il “sonno
della ragione” lasciava spazi alle armi, alle guerre, ai lutti, alle
devastazioni materiali e morali di intere generazioni. E spazia,
Graziano, per le praterie della memoria dalle quali, specialmente i
giovani, apprenderanno del conflitto israelo-palestinese in una terra
“tre volte santa” segnata dalla maledizione di un destino senza pace;
apprenderanno della sconfitta inflitta ai francesi a Dien Bien Phu da un
esercito di contadini guidati dal mitico generale Giap; apprenderanno
della sconfitta del potente esercito americano, della sua fuga, e della
riunificazione nazionale di un paese già dissanguato da un colonialismo
quanto mai avido e feroce; apprenderanno che fu la macchina fotografica
di Ennio Jacobucci a raccontare al mondo le mille e mille crudeltà che
ogni guerra porta con sé..
Come mai il povero pastorello di Morrea diviene un gigante
dell’obbiettivo fotografico? Graziano Di Rocco lo testimonia con una
ricognizione in forma di piéce che, non solo coinvolge emotivamente, ma
stimola meditazioni intorno alla mutevole condizionale umana nella quale
sono presenti più ombre che luci. Una di queste luci appartiene alla
sensibilità umana, alla generosità, alla capacità di cogliere negli
occhi e nelle nani di un piccolo lustrascarpe le potenzialità di una
crescita che è, nello stesso tempo, intellettiva e professionale.
Vedendolo curvo a lustrare le sue scarpe, Darek, il generoso e affermato
fotoreporter inglese, intuisce che al piccolo Ennio tocca un destino
diverso, lo emancipa dalla botteguccia, e se lo porta con sé a conoscere
il mondo, a interrogare la realtà, a documentare con l’obbiettivo quel
che l’occhio, e l’anima, percepiscono per farne testimonianza del loro
tempo. E sotto la guida del maestro inglese, Ennio cresce come uomo e
come stimato professionista. E’ maturo. E si avventura nei teatri di
guerra che dalla Palestina – terra rubata al ad un popolo e crocevia
delle tre religioni monoteistiche del Dio unico che dovrebbero ispirare
sentimenti e condizioni di pace – vola nella terra vietnamita di Ho Chi
Min, vola nel cuore della tragedia cambogiana, e poi nel Laos.
Mente scrivo mi sovviene il racconto che mi fu fatto tanto tempo fa a
Pescasseroli dove, il pastorello Cesidio Giovanni Di Pirro, conosciuto
da un mecenate, lo strappa alle fatiche dei pascoli e della transumanza,
lo aiuta negli studi, si laurea in materie scientifiche inerenti le
telecomunicazioni, matura le sue idealità socialiste, e assurge a
direttore di una struttura a capo della quale riordina tutta la linea
telegrafica e ferroviaria nazionale. Miracoli di intelligenze che
vengono salvate dall’oblio: Ma tanti, troppi, rimangono prigionieri dei
condizionamenti sociali ed economici, e dai contesti storici nei quali
non al merito si guarda, ma il censo.
Chi leggerà queste pagine, o presenzierà alla rappresentazione pubblica
di questa piéce, avvertirà quanta ingiustizia, e quali aberrazioni,
hanno segnato (e ancora segnano) il destino dei poveri in tutti i
contesti nei confronti dei quali ogni giorno vengono profusi inviti alla
mano tesa, alla solidarietà, all’aiuto, che sì, è già qualcosa, ma
pochi sono rimasti a proclamare che è la povertà che va abolita perché
nessuno sia umiliato a tendere la mano ogni giorno.
E non mancano, nelle motivate indignazioni di Graziano, le invettive
contro quelli che lui chiama “fratacci”, quelli del collegio in cui i
piccolo Ennio è segregato con tutte le sue ansie, le sue paure, le sue
umiliazioni, i negati sogni di un sorriso o di una materna amorevole
carezza.
Aprite, voi lettori, aprite, voi spettatori quando il dramma sarà
rappresentato, la vostra mente e il vostro cuore e viaggiate dentro
questo dolente “reportage” in cui alla tristezza del buio segue il
conforto della redenzione. E poi l’ignavia, l’oblio, l’abbandono. E la
fine. Tragica. Un racconto, quello di Graziano, nel quale severe
meditazioni confluiscono in una lezione che reclama un mondo diverso
capace di restituire all’uomo tutte le ragioni per le quali è, nel
contempo, persona e cittadino.
Scrivere o parlare di pastorizia, transumanza, tratturi è parlare è
parlare di una storia che. con fondate ragioni, è stata definita
“civiltà della transumanza”. E’ tale fu quel complesso di impegni e di
manualità che si svolgeva lungo gli impervi sentieri erbosi che l’Editto
di Alfonso I d’Aragona aveva riordinato per garantire all’erario del
proprio regno cospicue ricchezze. Il Tratturo L’Aquila-Foggia, chiamato
il “Trattuto del Re” era i lungo 243 chilometri; Il Tratturo
Pescasseroli-Candela, era lungo 211 chilometri; il Tratturo
Celano-Foggia. era lungo 207 chilometri e correva nel cuore
dell’Abruzzo prima di immettersi nei territori confinanti. E’ a questo
Tratturo che Giancarlo Speciale dedica, per nell’ampia documentazione
storica così ricca nel volume, una particolare attenzione. E lo fa
“dall’interno”, cioè con lo spirito di chi delle manualità
agro-pastorali conosce, per tradizione familiare, fatiche, affanni,
dedizione. L’autore non è un visitatore distaccato da una realtà nella
quale si è plasmata una identità di cui si sente partecipe e figlio. E
rivisitando questa storia, riordinandola minutamente per fatti, eventi,
usi, costumi, testimonia il livello d’amore per un mondo che dentro
tanti chilometri e 111 metri si larghezza ha segnato la vita di intere
generazioni.
In sede di presentazione di un volume che raccoglie
l’immane fatica di una ricerca e di un riordino, e che ci viene proposta
come documento di conoscenza e di meditazione, sarebbe sbagliato
indugiare in una dettagliata elencazione dei meriti che la pubblicazione
contiene e all’interno della quale vi sono delle “chicche” che
rischierebbero di svanire nel regno delle dimenticanze che il tempo e la
pigrizia culturale inesorabilmente produce. Si leggano e si rileggano
le pagine dedicate agli aneddoti celanesi: è un recupero della memoria
che Giancarlo fa perché questo patrimonio di espressioni, che intricano
molto con la locale, domestica, paesana vita di relazione, continui a
vivere per il dovere, oltre che per il gusto, di conoscere di quale
vivezza lessicale era fatto il “parlar del borgo” che ha affascinato
fior di dialettologi. Ma nel volume, spicca anche un ricco comparto
della religiosità pastorale che ha nell’ Arcangelo Michele, il quale,
nell’immaginario dei transumanti che vivono la decadenza del politeismo
mitologico e l’avvento del cristianesimo, toglie la clava al robusto e
arma la mano al nuovo protettore. E vivamente suggestive sono le pagine
che hanno come scenario di riferimento la Marsica dove la terra dei
serpari lascia spazio alla terra dei pecorai. Sono pagine scritte con
amore le quali, pur nel rigore storico, testimoniano l’affetto per una
terra che gli eventi che l’hanno segnata ha dovuto risalire, di dolore
in dolore, verso la sua emancipazione. E chi sapeva della esistenza
della stipa nel panorama naturalistico della Marsica? Giancarlo Speciale
la cerca, la trova, la classifica. E la Stipa, da pianta botanica, si
carica di favola e di poesia divenendo lino delle fate che nel gusto
degli ornamenti domestici fa bella mostra di sé, come le cose semplici,
che danno grazia e lietezza alla casa contadina.
La fatica di Giancarlo Speciale si aggiunge alla ricca letteratura che
ha per oggetto la pastorizia, la transumanza, i Tratturi. Se quella che
fu definita “civiltà della transumanza” ha alimentato la saggistica, la
puntualizzazione storica, la narrativa, le arti, la poesia, la musica, i
canti e le favole, non è senza ragione. E molte di queste ragioni sono
racchiuse nel ponderoso volume che Giancarlo Speciale ci propone. E io, a
mia volta, propongo al tettore questa “perla” lirica del
sensibilissimo Jean Claude Izzo che sintetizza la resurrezione delle
selvagge sterpaglie a motivo rigoglioso di vita :
Qui, aveva pensato il mattino del suo arrivo,
nulla cambia. Tutto muore e rinasce.
Anche se ci sono più villaggi morenti che vivi.
Sempre, prima o poi,
un uomo reinventa i gesti
più antichi. E tutto ricomincia.
I sentieri, coperti dalla sterpaglia,
ritrovano la loro ragione di esistere.
E’ questa la memoria della montagna.
Dire Spartaco a fumetti, é impresa, nello stesso tempo, originale e
audace per le implicazioni che comporta sul piano del ritmo narrativo,
ma innanzitutto della evocazione, nell’immaginario del lettore, e
specialmente dei giovani a cui la pubblicazione è prevalentemente
indirizzata, di una figura che giganteggia nella storia quale
riferimento imprescindibile del secolare sogno di libertà che ha
attraversato (e non finirà mai di farlo) il pensiero e il gesto
dell’uomo che vive l’impegno nel presente come seme fecondo del futuro.
James Fantauzi, obbedendo ad un impulso a lungo meditato per le vie
della corrispondenza della figura dell’eroe ribelle con la propria
carica di idealità libertarie, lo ha fatto e lo ha fatto bene. E in
questo sta la ragione per cui, una storia raccontata mella
pubblicazione, non va ripetuta nel succinto spazio di una recensione, ma
sottolineata nei passaggi fondamentali solo per stimolare in chi legge
un più alto livello di attenzione e una più fervida partecipazione
emotiva alla vicenda di un protagonista il quale, camminando per le vie
della storia, si eleva a mito e leggenda.
E’ il lucignolo che si fa fiamma e divampa in un fuoco che ha scosso la
mente e il cuore di quanti degli aneliti della libertà fanno motivo di
vita giustificando così la propria presenza nel modo e in relazione al
quale non sentirsi inquilino passivo, ma partecipe protagonista.
Anch’io, scrivendo questa nota, sono decisamente
condizionato dalla mie inquiete riflessioni sul destino dell’uomo in
rapporto alla storia – i saggi l’hanno definita la più difficile delle
scienze – che è madre generatrice di pensamenti, riflessioni, emozioni; e
che suggerisce, di conseguenza, scelte e partecipazione.
Spartaco nel pensiero dei grandi.
La figura di Spartaco ha affascinato nei secoli quanti della dignità
dell’uomo, del riscatto da ogni forma di schiavitù, del pieno
realizzarsi della persona, hanno fatto il loro terreno di meditazione e
di lotta. Immagino Marx chino a scrivere all’amico Engels, con Spartaco
nel pensiero, la sua ammirazione per il giovane pastore che si fa
soldato, da soldato ribelle, da ribelle condottiero di un esercito di
poveri che fa tremare la potente Roma. Colui che viene definito “grande
generale”, “migliore protagonista della storia antica”, “genuino
rappresentante dell’antico proletariato”, trova spazio finanche nelle
pagine di Plutarco che ne sintetizza un limpido e appassionato ritratto
per dire che “era estremamente forte e serio, intelligente e
chiaroveggente”. E che il suo aspetto era quello “più di un greco che di
un barbaro”.
Spartaco nei canti popolari
La storia ha reso a Spartaco uno spazio che si è sempre più dilatato nei
secoli. Una storia che è lievitata nei saperi alti e che ha gonfiato le
bandiere di quanti sfidano le oppressioni, le emarginazioni, le
negazioni, in nome della più compiuta dimensione dell’uomo: la libertà
materiale e spirituale. Giganteggiando nella storia, Spartaco si fa
spirito dei tempi, luce nelle oscurità oppressive, lampo nei gesti
rivoluzionari e sovente anche nelle esplosioni di collera popolare
contro le rozze prepotenze dei potentati locali. Penso, tra l’altro, ai
cameroni dei deportati dal fascismo nelle isole di confino dove, uno di
loro ch si firmava “Spartacus”, immagina lo spirito di Spartaco alla
testa delle ondate rivoluzionarie. Ho rintracciato tra le mie vecchie
carte un foglio sgualcito dal tempo con sopra la succinta annotazione:
“I canti di Spartaco”. Sono canti che, parodiati sulle arie delle
canzonette in voga, venivano cantati dai deportati nei pochi momenti di
svago nelle lunghe ore serali dando alla coralità uno struggente senso
di malinconica nostalgia per la libertà negata. I canti di Spartaco si
alternavano con i più noti canti della protesta, della speranza, della
testimonianza. Ne ricordo uno che evoca lo spirito di Spartaco aleggiare
nei moti rivoluzionari che dalla Russia zarista arriva nel cuore
dell’Europa tanto che – dicono i versi modulati sull’aria della Leggenda
del Piave – “valicò gli urali e il Cremlino/ e giunse fino a Monaco e
Berlino/ qui sventolando la bandiera rossa/ diede il segnal della
riscossa/ e cadde, ma di notte sulla Sprea/ qual immenso falò la salma
risplendea”. Lo spirito di Spartaco che sfidò la potenza di Roma in nome
della libertà, ha attraversato i secoli ed è entrato nei contesti del
lavoro umiliato, della fame mai saziata, delle soggezioni escludenti,
della miseria che spezza le esistenze umane, del mondo inquieto dei
dimenticati senza nome e senza storia. In questi contesti di vite
negate, la fiamma spartachiana non si spegne mai e prende forme che
coinvolgono, nel contempo, realtà nazionali e ambiti familiari.
Primeggia, in questo contesto, la lega spartachista tedesca che salda il
pensiero rivoluzionario di Rosa Luxenburg e Karl Liebknecht,
assassinati da alcuni ufficiali del nascente nazismo, al nome di
Spartaco. In molte famiglie quel nome fascinoso entra come testimonianza
di fedeltà al sogno di emancipazione. Molti figli di militanti dei moti
rivoluzionari vengono chiamati col nome che ricorda il giovane pastore,
il soldato disertore, il capo militare, il combattente intrepido, il
condottiero che cade e subisce il supplizio. E si ravviva
nell’immaginazione degli uomini liberi il tragico scenario dei seimila
legni con appesi i corpi degli sconfitti che sta nella storia come
memoria di quanto, qualche secolo dopo, avverrà per un ribelle nelle
alture del Golgota.
Il valore di questa pubblicazione
Tracce di questa storia divenuta leggenda, sono vive e palpitanti nel
paziente, accorto, partecipato racconto ordinato, per immagini e parole,
nel lavoro di James Fantauzi il quale si è improvvisato, con indubbia
maestria, storico e disegnatore. Non so dire quali siano i criteri che
hanno stimolato l’autore a far rivivere un gigante del gesto ribelle
nelle pagine di un racconto dalle modulazioni che hanno il sapore fresco
ed immediato delle narrazioni infantili. E non so dire neanche se è più
la parola ad esplicitare l’immagine o l’immagine a mettere le ali alle
parole. Posso dire con certezza – questo sì – che vi è un accorto
dosaggio tra parola e immagine le quali insieme concorrono a dar senso
di compiutezza espressiva ad un evento tanto lontano a misura di storia e
tanto vicino alla nostra quotidiana vita di relazione. Si è lungamente
dissertato sul senso della rivolta per cercare in essa le connotazioni
della rivoluzione. E si è detto, col soccorso della storia, che mentre
la fame genera collera e rivolta, sono le ingiustizie, le umiliazioni,
la negazione della libertà a generare pensieri e gesti rivoluzionari. E
quando aneliti di libertà e morso della fame si congiungono, la miscela
divampa tra moltitudini di emarginati i quali, rivendicando il proprio
spazio nella storia, incendiano un momento di vita perché partorisca il
futuro. Nel contesto della rivolta spartachiana deve essere accaduto
qualcosa del genere. E il segno che ha lasciato nella storia è stato
talmente profondo da lievitare fino alle moderne rivoluzioni.
Spartaco in un libro del rovetano Giuseppe Bifolchi
La figura dell’eroe ribelle che straripa nella pubblicistica, nei canti
popolari, nella filmografia - e che tra l’altro ha impegnato il genio
creativo dello scultore Louis-Ernest Barrias il quale gli ha dedicato un
marmo esposto nel Giardino delle Tuileres di Parigi immaginandolo
crocifisso per la via Appia – deve aver esercitato un fascino
particolare su Giuseppe Bifolchi, nato a Balsorano, lo stesso paese dove
è nato l’autore dell’originale racconto “a fumetti”. Giuseppe Bifolchi
ha dedicato alla figura e alle imprese di Spartaco un volume che dà la
misura di quanto profondo sia stato l’interesse per uno schiavo che, in
nome della libertà, organizza un esercito di schiavi e sfida la potenza
di Roma. A leggere il volume si ha la sensazione che Bifolchi cerchi
nella figura di Spartaco motivi ideali da correlare alle sue scelte di
combattente per la libertà. Il volume è scritto con gli impulsi del
cuore e le meditazioni della mente: un incontro fecondo che fa
dell’amore per la libertà un lievito delle scelte ideali e dell’impegno
politico. Sono queste le ragioni che spingono Bifolchi - figlio della
terra balsoranese che ha conosciuto da ragazzo il mondo della doppia
povertà che colpisce lo stomaco e nega il sapere – ad andare oltre. Ha
dato alle sue idealità libertarie il supporto dell’agire politico, della
cospirazione antifascista, dell’affinamento culturale nel confino
coatto tra il fior fiore della intellettualità della contestazione,
dell’impegno militare partecipando, con le armate internazionali, alla
difesa della giovane e sfortunata Repubblica Spagnola aggredita dalla
reazione franchista e clericale. Ho avuto il privilegio di conoscere
Peppino Bifolchi quando, dopo la caduta del fascismo, fu il primo
sindaco del suo paese in una Italia che riprendeva faticosamente il
cammino verso la democrazia. Lo ricordo come uomo dai sorrisi appena
accennati, sempre pensoso, con nel volto i segni di una espressione
severa. Con quel sigaro sempre in bocca, mi appariva come il tipico
contadino abruzzese, asciutto, forte, con addosso la sordità di una
società chiusa agli ardori della libertà e della giustizia e il cruccio
di una diffusa povertà rassegnata a rimanere, come diceva un antico
canto di protesta, nella eterna condizione di plebe “tradita e
maledetta”. Peppino era uomo di poche parole, succintamente scandite,
molto pensate. Parlava poco di se stesso, delle sue esperienze politiche
oscillanti tra un anarchismo di coloritura romantica e un
repubblicanesimo che auspicava quale sbocco statuale nell’imminente
referendum istituzionale. Lo incontravo presso lo studio dell’avvocato
Pietrantonio Palladini, ad Avezzano, figura eminente del socialismo
marsicano, perseguitato, confinato antifascista, con il quale
intratteneva rapporti di una amicizia maturata sulla scia dei comuni
vincoli ideali e illuminata da grande affetto. Speravo sempre in qualche
più diffusa narrazione del suo passato, ma mi dovevo accontentare di
laconici accenni alle prospettive dell’Italia del tempo dei nostri
incontri. Maturai, col tempo, la convinzione che la riservatezza sulla
sua esperienza, era un dato del suo carattere: un certo pudore per non
dare la pur minima sensazione di voler trarre profitto di considerazione
e di materiale interesse dal suo passato antifascista. E ad un attento
lettore delle pagine che Giuseppe Bifolchi ha dedicato alla figura di
Spartaco, non può sfuggire come, insieme al taglio storico, egli abbia
voluto cercarvi una lezione per nobilitare la grande utopia libertaria
che unisce tra di loro quanti sognano una società di giusti e uguali.
Conoscevamo, e ci aveva deliziato, quella “trilogia” in cui memoria e
affetto, attraverso i racconti di Nazzareno Mascitti, ci riconduce per
le vie di un mondo che custodisce ed alimenta le radici da cui, in
quanto generazione “terrigna”, proveniamo. Questa sera, discorrendo di
Una giornata a Turlò, a quelle tre “perle” che vanno per Personaggi e
storie di altri tempi, Ricordi dell’Aia, La strada dell’Aia, si aggiunge
un affresco narrativo tutto in “punta di penna” che, tenendo alto il
profilo della memoria e tenendo vivi gli impulsi dell’affetto, ci
accompagna laddove, come generazioni, passammo e ripassammo, per tornare
sempre da càpe, con addosso un carico di fatica e di fame, di patimenti
e di speranze, di sopportazioni e di collera.
E’ accaduto cosi che, scorrendo pagina dopo pagina il racconto di quanto
veniva svolgendosi in quella “piccola miniera d’oro” tanto ricca di
sofferenze quanto povera di pane, si ricompone nella mente il mosaico di
una microstoria che tuttavia respira, vive, trepida ai margini di una
storia più grande nella quale – spietatezza della scala sociale! – un
pugno di gaudenti non aveva mai provato “l’incubo dello stomaco vuoto,
che tra i mali di allora era il più in voga”.
Ed ecco, in un ritmo narrativo godibile anche se scandito da inaudite
sofferenze, il riemergere di nomi e soprannomi; di modi di dire e di
allusioni; di richiami proverbiali e di abitudini; di un gustoso
lessico per indicare figure, cose, gesti, luoghi; di manualità eseguite
con l’antica e disinvolta consuetudine tutta contadina; insomma, di un
vivere col solo scopo di sopravvivere.
Leggendo e meditando queste pagine, mi è tornato alla mente quel
pensiero di Ernesto De Martino – celebrato antropologo meridionale e
meridionalista – che ancora ci sollecita “a possedere un villaggio
vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di
nuovo, e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce
universale”. Questo “villaggio vivente” è sempre desto nella memoria di
Nazzareno: è Celano, è il Fucino. Ma è anche la condizione identitaria
di chi, in tutti i continenti, da secoli è condannato a zappare una
terra non sua.
Quel che Nazzareno narra nelle tre “perle” che ho appena ricordato, e
che arricchisce con questa rivisitazione dei fatti e della cose del
tempo di Turlò, è nello stesso tempo testimonianza di amore per il
“villaggio” di cui si sente figlio e di generoso auspicio che le giovani
generazioni possano compiere una cavalcata nel tempo in cui vissero
Piùcce, Nenè Tùrre Tùrre, Melùzze, Emilie Ciuciù, Luigge Furbe,
Dunatelle, Pasqualine Dunatejje, Baldone, Cesiddie Giannette...
Scopriranno così la grande lezione della storia secondo la quale l’uomo
si compie passando per i rovelli sociali e le esperienze umane di cui
Una giornata a Turlò che questa sera teniamo a battesimo costituisce un
test che, sia pur circoscritto all’età della dominazione torloniana, ne è
una controprova.
Una giornata, quella trascorsa a lavorare nelle terre di Turlò, era una
giornata ripetitiva che collegava le fatiche della primavera a quelle
dell’estate e queste a quelle dell’autunno. Una giornata ‘ncarassole,
una fatica appena appena mitigata dagli ozi invernali per riprendere
con i primi caldi d’aprile, il cafone se la portava nelle ossa e la
univa ai tormenti dello “stomaco vuoto” che “agitava le menti”, che “non
faceva dormire”. Nazzareno si immedesima in quella fatica contadina, in
quelle schiene curve, in quel travaglio quotidiano che erano l’unico
“rimedio per lo stomaco vuoto”. E al cospetto di ciò, non un gesto di
comprensione o di compassione. No. “Turlò odiava la schiena dritta”. E
questa crudele verità si fissava nel tempo, si faceva destino. E nella
narrazione di quel tempo, di quel destino, di quella condizione, è
lontana l’immagine della serenità campagnola decantata solo da chi della
fatica contadina non conosce nulla. Tuttavia, le evocazioni di
Nazzareno non indulgono mai a sentimenti di nichilismo, di abbandono, di
nevrosi disperanti. Vi è un tempo per la fatica, sia pure dura e
talvolta dannata, ma vi è anche un tempo per qualche sfottò, qualche
allegra sbicchierata, qualche scherzo, qualche divertita malizia tra
quei braccianti e quelle braccianti presi a giornate. Non so se definire
gioia quei momenti di evasione. Seneca riteneva che la vera gioia è
cosa severa. Per i cafoni erano passeggeri spicchi di luce in un mondo
di patimenti e di speranze troppo lunghe. E non so neppure se i cafoni,
carichi di pene e di attese, abbiano mai goduto, come racconta
Nazzareno, i canti e gli incanti delle allodole che accompagnavano, come
una deliziosa colonna sonora, il duro lavoro che si faceva sfida a chi
arrivava prima da péde “nel grandioso palcoscenico di Turlò”. Le pagine
che Nazzareno dedica all’allodola, si caricano di poesia e di nostalgia:
poesia, per l’atmosfere che una tenera creatura canora sa infondere
nello spirito dell’uomo sensibile alle modulazioni canterine che vanno
dalla terra al cielo e dal cielo alla terra; nostalgia per la semplice
ragione che oggi, data la scomparsa delle allodole dal “palcoscenico”
del Fucino sedotto e sottomesso dal trattore, quella esperienza del
sentimento è disperatamente tramontate per sempre.
Per il pensiero di Nazzareno Mascitti, uomo della terra prestato alle
lettere, dopo il bel saggio sulla vicenda umana e politica di Filippo
Carusi che fu capo contadino con ideali socialisti, vi è spazio per una
rivisitazione dei monumenti storici ed artistici della sua Celano e per
una sorta di reportage su una gita di istruzione che documenta il suo
rapporto creativo e affettivo con la scuola. Ma quando la sua mente e il
suo cuore s’intrigano con gli uomini e le cose della cafonitudine
celanese, è la sana paesanità che rivive, è quel demartiniano “villaggio
vivente nella memoria” che ci riversa nell’animo una cascata di
ricordi e di emozioni. E ecco nascere spontanea una domanda: perchè
Nazzareno scrive? Un giorno sarà lui a dircelo. In me è maturata, per
ora, una sola e semplice risposta condensata in una pertinente
confessione del buon Roland Barthes: “Quando si scrive, si ha bisogno di
una risposta d’amore”. Questo è vero. Ed è tanto più vero quando si
scrivono cose che Nazzareno scrive. E come le scrive. E l’amore con cui
Nazzareno scrive va ripagato con amore. Nazzareno ci ripropone un mondo
ricco di umanità e custode di valori il quale – per dirla con Alfonso Di
Nola – “si credeva dimenticato e che, invece, tuttora è pulsante della
sua sanguigna pienezza e riesce a farsi parte di noi”. E’ questo mondo
che Nazzareno rivisita con la lucida coscienza di chi, con questo mondo,
non ha solo un rapporto di memoria, ma anche di mai smessa manualità,
impegnato com’è a seguire amorevolmente la sua terra e a rispondere alle
esigenze delle stagioni che non ammettono distrazioni. E’ per questo
che egli ne parla non col freddo “contadinismo” troppo presente nella
cultura “altra”, ma col solido sperimentato conforto conoscitivo che
conferisce alla cultura subalterna la dimensione di una controstoria.
Il volumetto – piccolo come debbono essere le cose
graziose che racchiudono il massimo dei valori in piccolo spazio – si
apre con la prefazione di Ornella Mariani la quale collega la storia del
Fucino e le inquietudini che la segnano, alle tematiche meridionaliste
di cui il messaggio siloniano è voce alta e prestigiosa. A dare maggior
pregio a questo scrigno di ricordi e d’amore, vi sono alcuni “schizzi”
di Franco Angelosante. Sono essi stessi, accortamente ancorati al ritmo
narrativo del volumetto, racconto nel racconto nella rapida dimensione
delle immagini (ecco perché “schizzi”) le quali, catturando un momento
evocano un tempo. E non c’è scarto tra le emozioni che sanno suscitare
le parole di Nazzareno e quelle che sa suscitare l’attento, vigile,
dosato segno grafico di Franco. Ed ecco il patriarca che accende la
sigaretta “spippacchiando” a più non posso; ecco la processione dei
carretti che di buon mattino vanno e di sera tornano; ecco l’allodola
canterina nelle sue libere infinite evoluzioni; ecco le schiene “ancora
una volta curve” perché in alto c’è qualcuno che “odia le schiene
dritte”; ed ecco, a chiusura di questo magico viaggio in un racconto che
ci ricorda da dove veniamo e di quante “zolle” siamo fatti, un bel
ritratto di Nazzareno, tutto in punta di lapis, che sembra salutarci col
piglio di chi promette: alla prossima! E noi, ringraziandolo, rimaniamo
in attesa.
Il progetto di un convegno sulla figura e l’opera di Kristian Zahrtmann e
della scuola dei pittori danesi a Civita d’Antino, risponde a due
esigenze fondamentali: quella di documentare e valorizzare tutte le
motivazioni per cui un caposcuola e i suoi discepoli, scelgono un paese
della Valle Roveto per trovarvi ambiente e ispirazione per il proprio
impegno d’arte; quella di indagare e documentare il rapporto tra la
scuola dei pittori guidati da Kristian Zahrtmann e il paesaggio e le
comunità rovetani così presenti nelle tele che rappresentano un
patrimonio irrepetibile di una esperienza d’arte affinata in una terra
che, vivendola compiutamente, “non potrebbe essere più vicino al
paradiso”.
Il convegno, da collocare a Civitella Roveto, cuore della vallata che
aveva suggestionato con le sue luci e i suoi colori la sensibilità di
Kristian Zahrtman e dei suoi allievi, ha, tra gli altri, l’obiettivo di
diffondere tra le comunità rovetane e dei territori limitrofi, il senso e
il valore di una presenza d’arte che, elevandosi a dignità di scuola,
ha fatto conoscere il fascino di quello che è stato definito “il regno
della luminosità e della leggerezza”. Un fascino, del resto, altamente
testimoniato dallo stesso Zahrtmann quando scrive: “Civita è un posto
che, quando io non ci sono si sbiadisce e ogni volta che ci ritorno mi
sorprende con le sue meraviglie in tutti i sensi”.
E’ interessante notare come, nel pensiero di Zahrtmann, è così viva e
palpitante la simbiosi tra l’ambiente e l’uomo. Egli parla del
“carattere” della gente come figlianza della natura, della montagna,
dell’ambiente. E rimane incantato quando osserva i contadini che tornano
dai campi con la zappa in spalla, o quando il giovani si rimandano
allegri le melodie del saltarello. Sembra quasi che Zahrtmann si fa uno
di loro in un misterioso fenomeno di immedesimazione.
Indagare, studiare, diffondere questo rapporto tra Zahrtman e la Valle
Roveto, è un contributo di alta valenza culturale e sociale ai rovetani
perché conoscano meglio anche se stessi e l’ambiente in cui si svolge la
propria vita. Conoscere compiutamente il patrimonio d’arte dei pittori
danesi in Civita d’Antino, ha una ricaduta di notevole valore nel
territorio rovetano in quanto testimonia la dimensione di quanto la vita
dà all’arte e di quanto l’arte, trasfigurando i “suggerimenti” della
vita, restituisce in termini di emozioni e di educazione dei sentimenti.
E’ compito del nostro progetto quello di coinvolgere studiosi,
ricercatori, critici, storici perché sia largamente testimoniata l’opera
pittorica di più di cento artisti la quale, avendo radici nella Valle
Roveto, è presente nei più prestigiosi musei scandinavi. In ragione di
ciò, una scuola nata nel cuore della Valle Roveto, si appalesa anche
come motivo di orgoglio dell’Abruzzo che sa “parlare” di sé a gente
lontana.
Infine, dando la giusta dimensione al fascino suscitato nell’animo di
Kristian Zahrtmann dal piccolo borgo di Civita d’Antino elevato a sua
“seconda patria” per la pregnanza degli incanti e delle emozioni, e
correlando ciò a realtà culturali e sociali in cui l’interesse e l’amore
per l’arte modellano lo spirito dell’uomo, il Convegno ci consente di
assolvere ad un doveroso impegno da tempo accarezzato da singoli e
istituzioni il cui risultato, quale alto arricchimento conoscitivo, va
consegnato a questa e alle future generazioni.
L’Associazione Culturale “Il Liri”, tenendo a battesimo questa nuova, e
non ultima, fatica di Giovanni De Blasis, ha compiuto una duplice,
lodevole, meritoria operazione culturale: da una parte si è messo
all’occhiello non solo un fiore, ma un gioiello che ha il senso di un
generoso auspicio per il proprio divenire editoriale a cui il presidente
Mauro Rai tiene molto; dall’altra contribuisce a far conoscere
ulteriormente la levatura culturale di Giovanni De Blasis – non so se
definirlo un medico prestato alla ricerca storica o uno storico prestato
alla medicina – testimoniata da una capacità e da una passione di
“narrar di storia” con lo stesso ordine, la stessa esattezza, la stessa
precisione con cui compie un dovere medico.
Il tema è quanto mai intrigante. Direi che Giovanni, pur ancorando la
sua ricerca e le sue riflessioni sugli eventi che hanno segnato il
decennio della dominazione francese che il Bianchini ricorda essere
chiamato “della militare occupazione”, compie una lunga cavalcata sulle
tante significazioni che il decennio napoleonico ha inciso nella più
vicina storia dell’Abruzzo, della Marsica, della Valle Roveto. Le
coordinate sono tante. Giovanni, col rigore dello storico, con
l’affabulazione del narratore, le fa entrare l’una nell’altra; e credo
di poter dire che è giusto fare così, in quanto la microstoria e la
macrostoria fanno tutt’uno nel destino di un popolo. Un fatto, un
evento, l’opera di un personaggio, la sottomissione o la ribellione di
una comunità, le conquiste o la delusione di un movimento – pur
riguardando nell’immediato un paese, una contrada, un territorio – hanno
radici profonde nelle specificazioni che Giovanni indica nel succinto
sottotitolo: ordine pubblico, condizioni economiche, grandi riforme.
Ecco come tumulti popolari e brigantaggio, rapine baronali e miseria
proletaria, conflittualità a volte, e a volte combutta tra poteri,
segnano il destino di una moltitudine di sudditi che aspirano a divenire
cittadini. In questo quadro il “Decennio Francese” aiuta, con l’opera
della intellettualità illuminata, a dare senso al concetto napoleonico
di cittadinanza con tutto ciò che ne consegue sul piano dei rapporti
economici, dei diritti e dei doveri civili, della caduta di antiche
soggezioni, del sogno di riscatto nel segno solo appena assaporato della
libertè, égalitè, fraternitè, del transito dalla nobiltà sedentaria e
parassitaria alla borghesia intraprendente ed operosa. Lo stesso Marx
simpatizzava molto col borghese che sapeva aprirsi la camicia e
rimboccarsi le maniche, ma non aveva alcuna simpatia per i nobili ceti
dell’ancian régime.
Il Fucino visse il “Decennio Francese” tra speranze e delusioni. Mentre
in Abruzzo, insieme alla fame secolare, le plebi sentivano il morso
delle malattie proprie della povertà, tra le quali le più intercurrenti
erano il vaiolo, il morbillo, la scarlattina, la miliare, l’urticazione
dovute a contagio nei luoghi di riunimento di persone senza la dovuta
pulitezza e ad estrema penuria e a disnaturati eccessi, nel Fucino
ancora lago la pena maggiore era per quelle “acque ringhiose racchiuse
in sì angusta prigione”. E a causa delle ricorrenti escrescenze, erano
allagamenti, distruzione di seminati, morte di bestiame, sconvolgimento
del ritmo normale della vita nelle casupole degli abitamenti ripuari.
Con Giuseppe Bonaparte sul trono di Napoli, la speranza ispira una
supplica dei cittadini di Ortucchio. Nell’accorata supplica si chiede:
Sire...liberaci dai ricorrenti allagamenti, dal ricorrente flagello
delle alluvioni...Se la nostra supplica sarà esaudita, ti promettiamo
che in onore al tuo nome cambieremo il nome al nostro paese...non più
Ortuccio, ma... Giuseppopoli...Ma nel 1812, con la sfortunata campagna
napoleonica contro la Russia, e con la chiamata di Giuseppe Bonaparte
alla testa di alcune armate, il sogno degli ortucchiesi svanisce. Per
fortuna, perché ci saremmo trovati, nel cuore della Marsica, un paese
con un nome ancora più brutto di quello di Ortucchio.
A conclusione della lettura, resta in me questa chiara e
amara convinzione: prima del “Decennio Francese” i poveri erano poveri;
con l’avvento del “Decennio Francese” i poveri rimangono poveri; col
ritorno dei Borboni sul Regno di Napoli, i poveri continuano ad essere
poveri; con l’Italia unità sotto il Regno dei Savoia, i poveri sono
ancora poveri; con la nascita della Repubblica, c’è qualche spiraglio,
ma la Città del Sole vagheggiata da Campanella, sognata da Garibaldi e
dai progressisti dei moti risorgimentali, auspicata dalle masse popolari
durante la Resistenza, sta ancora tra la notte e l’aurora. Tutto ciò mi
conferma nella ostinazione che non basta sognare un altro mondo, ma
occorre anche un altro modo di stare al mondo per stare dentro tutti i
fermenti che hanno sapore di futuro.
Basta. Qui mi taccio perché un bel libro, come dico sovente, non si
racconta, ma si legge. E voi, venuti qui così numerosi, concedetevi il
tempo di leggere questo libro, di fare una cavalcata in queste pagine; e
fatelo per un dovere di memoria, per un personale arricchimento
culturale, per recuperare la matrice della nostra identità perché questa
è pur sempre la storia che ci testimonia chi siamo e da dove veniamo.
A stimolare la lettura del volume, vi sono due “perle” introduttive:
Francesca Romana Letta, in poche pennellate, fa una sintesi magistrale
del volume per cui l’intento di premessa diviene un manifesto
esplicativo; Angelo Melchiorre richiama le coordinate fondamentali che
hanno impegnato Giovanni De Blasis, le disciplina in una prefazione
nella quale storia grande e storia domestica (come la chiamerebbe
Bertholt Brecht) dialogano tra di loro per ricordarci tempi di travagli e
di aneliti, di miserie e nobiltà, di eroismi e tradimenti, di domande
rimaste senza risposte e di risposte rimaste a mezz’aria. Insomma, una
premessa e una prefazione che suggeriscono l’immagine di un gioiello (e
questo di Giovanni lo è) su cui ben stanno due piccoli, ma preziosi,
brillantini.
La scienza non ha ancora inventato il “poverometro”, ma la storia ne dà conto. La dimensione della povertà è sempre correlata all’età storica in cui si manifesta per cui la povertà nell’età schiavistica non è come quella nell’età feudale, e poi nell’età borghese. E la povertà in un mondo globalizzato ha caratteristiche inedite perché la stessa globalizzazione è inedita rispetto al passato. Insomma, cambiano le forme, ma non la sostanza in quanto è sempre povertà. La povertà vive storicamente come naturale portato dei regimi classisti e il suo superamento sta nella liberazione economica, sociale e politica il cui termine ultimo è quello di affrancare l’uomo dalla miseria, dalla guerra, perfino dalla fatica della lotta di classe, quando finalmente ognuno sarà concretamente libero, materialmente e spiritualmente.
Io c’ero. E tanti con me. Ma dovevate starci quel giorno. Il giorno in
cui Gli anni rubati del TAMS sono approdati al Castello Orsini di
Avezzano con il loro carico di memoria e di dolore. Un allestimento
scenico nel quale immagini, parole e musica , sapientemente raccordate
tra di loro, raccontano lo sconvolgente spaccato della storia europea
segnata dagli orrori nazisti con al centro la sofferta esperienza di
Anna Frank, tenera adolescente ebrea, che dal suo nido-prigione tramanda
all’umanità la lacerante narrazione di due anni vissuti nel terrore col
solo conforto della speranza.
Dovevate esserci - ripeto - perché, attraverso il diario della piccola
Anna che si fa teatro, molti, specialmente giovani, avrebbero conosciute
pagine di una infamia che, dilagando per l’Europa, ha toccato anche
l’Italia, l’Abruzzo, la Marsica: basti citare Marzabotto, Pietransieri,
Capistrello. Sono questi santuari laici del dolore che, testimoniando i
massacri, si aggiungono alla memoria di Anna Frank e alle sue pagine
patite giorno dopo giorni in un mondo che sembrava chiuso alle ragioni
per cui l’umanità esiste.
La costruzione e il ritmo del testo, fusi nella regia di Paola Munzi,
danno subito il senso di una narrazione scenica di penetrante
coinvolgimento. A dilatare l’emozione del racconto per immagini e
parole, sono le musiche originali di Giuseppe Morgante e della stessa
Munzi. Si avverte subito come il sentimento della partecipazione emotiva
è elevato al massimo. Andrea Di Girolamo, invece, con una accorta
gestione degli effetti fonici e del gioco delle luci, fanno della
rappresentazione – se è possibile dirlo così – uno spettacolo di dolente
godibilità.
L’auspicio è che una pagina così evocativa della drammatica storia
europea del secolo scorso, non rimanga confinata nelle suggestioni, pur
legittime, di quanto riconducibile alla Giornata della Memoria. La
memoria è un sentimento che ci induce non a regredire dal presente al
passato, ma a progredire dal presente al futuro utilizzando
responsabilmente la lezione della storia. Per questo, una accorta,
sensibile, partecipata gestione di questa lodevole produzione teatrale –
che ingloba scena e memoria, stimolo alla meditazione e sprono alla
presa di coscienza – va fatta transitare per i circuiti culturali, nelle
scuole, nei sodalizi associativi impegnando in ciò, in uno stretto
rapporto di collaborazione, istituzioni e libere organizzazioni di
cittadini. Questo non solo per tener viva la memoria sulle scelleratezze
maturate nell’ambito del delirio di potenza del nazismo, ma anche
perché siano emarginati, e stroncati sul nascere, i ricorrenti e
perniciosi tentativi negazionisti e revisionisti dentro i quali è sempre
attivo il virus della malapianta fascista e nazista.
Romolo Liberale
“Progetto Coro-folk”
In occasione della manifestazione finale del “Progetto Coro-folk”, svoltasi a Tagliacozzo il 4 giugno 2011, Romolo Liberale ha partecipato inviando il seguente ELOGIO DEL CANTO che mi è gradito lasciarlo in ricordo a tutti gli alunni che hanno condiviso con me questa stupenda esperienza.
Il Canto, questa meravigliosa colonna sonora della prodigiosa evoluzione
dell’uomo, ha fatto dei sentimenti una delle forme più alte di
espressione. Molto prima dell’età classica, il Canto era già
testimonianza di gioia e di dolore alle quali, nei mutevoli registri
espressivi, era correlato il destino del singolo e delle collettività.
Il Canto singolo o il Canto corale, obbediscono a particolari
condizioni umane e divengono modi di comunicazione che coinvolgono le
ragioni dell’essere in quella particolare sfera delle suggestioni umane
che qualcuno ha definito “aristocrazia dello spirito”. E ciò perchè
l’arte - e tra le arti il Canto è una eccellenza - appartiene
all’aristocrazia della creatività dell’uomo.
Tra le forme del Canto, va annoverata quella dei
bambini. Il Canto di quelle che vengono definite “le voci bianche”, è
disciplinato dalla buona regola secondo cui i bambini, prima della
pubertà, non devono cantare brani con una estensione superiore a una
ottava. E’ questa una regola tecnica che ha due funzioni
particolari:consentire al Canto di “armonizzarsi”, in risposta, al
candore e alla tenerezza della voce infantile; proteggere le corde
vocali dei bambini da possibili stress che potrebbero risultare
pregiudizievoli per il prosieguo dell’attività canora.
I modi, i ritmi, i generi del Canto affidato
alla voce dei bambini, hanno una tale forza di coinvolgimento emotivo
per cui l’espressione “canto degli angeli” ha una rappresentatività
largamente motivata.
C’è chi ha detto che dopo il silenzio, ciò che più si avvicina ad
esprimere l’ineffabile è il Canto delle voci bianche. In esso c’è il
lieve alitare di vento tra le cime degli alberi, c’è il respiro sereno
del silenzio notturno, c’è il placido gorgoglìo del ruscello tra i
prati, c’è il tenue soffio che muove le ali angeliche, c’è infine la
testimonianza – come insegna il maestro Berio – della magia che
conquista la fantasia del bambino che ascolta la musica: “L’ascolto
istintivo, direi sensoriale, è possibile solo per il bambino, libero e
senza tabù”. E sarà forse per questo che – da qualche tempo e seguendo
precise terapie educative – le mamme in attesa del “lieto evento” fanno
ascoltare della buona musica al nascituro perchè nel loro farsi agiscano
i segni di quei suoni misteriosi solo appena percepiti.
Come si evince rivisitando pagine di lontane letture, perfino il saggio
Platone ha fatto un monumento etico alla funzione della musica. E lo ha
fatto dicendo: “Colui che possiede anima musicale, potrà amare gli
uomini”. Quindi, la musica come veicoli d’amore, di fratellanza, di
pace!
Nel corso dei secoli il Canto si è fatto disciplina, rigore esecutivo,
scienza che esprime emozione e partecipazione all’universo del bello. In
tutta la storia della musica, dove il Canto ha una funzione narrativa,
sono stati evocati eventi rapportati ai sentimenti, agli aneliti, ai
sogni degli uomini. In particolare nell’opera lirica, primeggiano le
passioni, l’amore, le speranze, i tradimenti, le liberazioni. Ma esiste
anche il Canto del dolore. Si pensi a quanto vi è dentro l’arco che va
dai requiem al triste Canto popolare delle Prefiche.
E va detto, infine, che se l’universo è il generoso contenitore di tutte
le cose, non vi è dubbio che di tutte le cose la musica, e con essa il
Canto, è il cuore pulsante.
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