Poeta Scrittore
La consapevolezza che si deve cambiare questo mondo emerge fin dalle prime raccolte di poesie di Romolo Liberale. Ad esempio, in “Ce vò nu monne gnove”, nelle prime due poesie e, in particolare, nell’ironica e disincantata “A la cantine”, dove la lingua dialettale diventa un ottimo strumento espressivo e dispensatore d’ironia, c’è questo intento, questa necessità di trasmettere il coraggio e la convinzione che questa giusta missione può realizzarsi. Il desiderio della fine delle ingiustizie e l’affermazione di un mondo nuovo basato sulla pace e sulla giustizia sociale riemergono nella lirica “Hanne sparata a Celane” e nella bellissima “Papà s’è fatte vecchie”, laddove torna l’ironia a dissacrare speranze che spesso si rivelano da sole, se non suffragate da un progetto politico di cambiamento, fallaci e utopistiche. Anche le ultime due poesie di questa raccolta sono molto dirette, a tratti dure, senza abbandonare quella tenerezza di affetti e di sentimenti che furono sempre parte costitutiva dell’uomo Romolo Liberale. Ne “Il Natale della povera gente”, infatti, la disperazione dei poveri trova nella solitudine e nell’indifferenza della società un riscontro drammatico specialmente nel giorno del Natale quando, a parole, tutti ci proponiamo di cambiare e di essere più buoni. Come l’ultima lirica della raccolta indirizzata “A mamma sé”, dove in un incalzante dialogo con una mamma il poeta riesce a far accantonare all’anziana genitrice ogni esitazione, ogni scetticismo e a dimostrarle che questo mondo è davvero da cambiare. Nel 1963, per i tipi dell’Editrice Convivio Letterario di Milano, viene pubblicata la raccolta di Romolo Liberale dal titolo “Parole all’uomo”. Le liriche di questa raccolta segnano un salto qualitativo netto sia nelle tematiche esistenziali, politiche e sociali, sia nella complessità dell’espressione poetica che inizia una propria ascesi lirica ed espositiva che porterà alcune di queste poesie ad essere premiate in diversi Premi Nazionali, a riconoscimento e suggello di questa maturazione poetica raggiunta da Romolo. Poesie come “Ode ai 33 martiri di Capistrello” o “Ballata di Maria di Magdala” o “Mio fratello negro” o “Bimbo d’Algeria” e per finire “Heilingenstadt 1808”, hanno portato all’opera poetica di Romolo Liberale un giusto e meritato riconoscimento. In gran parte di queste poesie c’è un filo conduttore: il rifiuto dell’odio e della prevaricazione, l’orrore per ogni forma di sopraffazione, il ricordo struggente per i martiri innocenti morti per la libertà, la rivendicazione della dignità dell’uomo al di sopra e al di là di ogni appartenenza di etnia o di paese, di bandiera o di religione.
“Non chiederò ai miei sogni di essere
il mio essere,
ma chiederò alla mia volontà di essere tutti i miei sogni
e di raccogliere come in una coppa d’oro
tutte le mie speranze”,
così in “Dentro il mio tempo”, il tenace e accorato appello ad
ascoltare i sogni e le speranze e non lasciarli in tal modo inaridire
mai.
Anche quando i sogni e le speranze sembrano dissolversi sotto la
bestialità dell’uomo impazzito e votatosi al male, quando col nazismo
si tolgono la vita a 33 innocenti cittadini di Capistrello:
“Quando il silenzio raccolse dai pendii
l’ultimo colpo e l’ultimo grido lontano,
oltre la malinconia dei roveti,
un requiem si scaldava al lume dei casolari
e gli uomini attendevano il mattino”.
Anche dopo una strage si attende il giorno successivo, che sia un
giorno migliore, un giorno di un mondo da cambiare, senza gli orrori di
ieri.
Con i versi ai martiri di Capistrello la poesia di Romolo Liberale perde la sua giovinezza e celebra l’innocenza infranta:
“Erano trentatré come gli anni di Cristo……..
Non li chiamavano per nome
perché erano lì senza colpa”.
Nell’Ode si consuma un drammatico e alogico contrasto tra la folle
crudeltà umana e la pace ridente della natura dei luoghi benedetti della
Marsica madre.
“Vennero i giorni della primavera.
Il Liri si coprì d’allegria,
cantò ai colori delle pratelline,
andò a piangere sui seminati.
Nella valle fiorirono i ciliegi
e il giorno si fece alto”
“I campi non furono più tristi
quando sopra
vi sbocciarono gentili i fiori
portati dal maggio.
Nessuno parlò di morte
tra le spine dei rossi lampioni”.
E nel confronto serrato, continuo, profondo con la Fede e con gli
elementi della parabola cristiana, Romolo ha sempre trovato la linfa
poetica ed espressiva sufficiente per esaltare la speranza, superare il
pregiudizio, innalzare l’uomo.
In “Ballata di Maria di Magdala” leggiamo:
“L’ombra delle palme conosceva il suo peccato,
il silenzio della notte conosceva il suo peccato.
E il suo peccato si chiamava amore!”
“Quando venne il figlio dell’uomo
ed ella gli bagnò i piedi stanchi
e glieli asciugò con le sue carezze
e glieli profumò col suo profumo,
il suo peccato si chiamò amore
e il suo amore dimenticò il peccato”.
L’amore, quindi, prevale sul peccato e può essere davvero la molla
per proiettare quel mondo nuovo che Romolo aveva in mente da sempre, da
quando ragazzo aveva conosciuto la povertà, le ingiustizie e i soprusi.
Non si tratta di un amore sentimentale, retorico, molle, ma di
un sentimento che ci dà la forza e la passione per vivere ogni giorno
una nuova battaglia per la giustizia e per un nuovo stato di cose.
Così si legge nella poesia “Mio fratello negro”:
“Tuo padre morì
sotto le miniere del Kasai
e il sole non se ne accorse.
Mio padre morì
prendendo rane
dentro i canali del Fucino
e la terra non lo seppe.”
“Quel giorno,
sul ponte del Giovenco,
ti misi la mano sulla spalla
e la grossa cicatrice mi ricordò,
mio fratello negro,
la frusta che non riuscì a domarti”.
Amore, quindi, non vuol dire soggiacere, sottostare alle ingiustizie e
alle prepotenze per il gusto di un quieto vivere che è una lenta morte
quotidiana; amore vuol dire, invece, affermare quei valori e quei
principi giusti per i quali vale la pena spendere una vita intera.
Gli umili, i poveri, sono stati sempre presenti nella poesia e
nella vita di Romolo Liberale. Erano la purezza della vita, erano il
candore della sua terra dalla quale non poteva allontanarsi:
“Sono fuggito dalla mia città
perché le luci dei grattacieli
mi nascondono le stelle”
“Il mio racconto si addormentò
nella mia anima
come i figli dei contadini
si addormentarono
sui giacigli di paglia”.
Gli umili eroi sono i contadini, i senzatetto, i lavoratori.
E’ struggente il ricordo del vagabondo che viveva da solo con la chitarra e i suoi sogni:
“Quel giorno
parlò la gente del villaggio
e disse:
“E’ morto il vagabondo.
Il suo amico l’ha trovato
tra i cenci
nella fredda baracca di creta
abbracciato alla chitarra” ”.
Deve nascere da costoro un mondo nuovo, un mondo senza più pregiudizi e
discriminazioni razziali, come nella bellissima e struggente “Bimbo
d’Algeria”:
“Ma io questa sera
se mi accendi il lume della tua capanna
e credi
che non credo alla razza
né alla tua né alla mia
voglio raccontarti la favola,
la dolce favola del tuo domani”
“Domani ti desterà
la voce di tuo padre
per narrarti la mia favola
con le sue parole.
E sarà più bella
perché sarà più vera”
Nel 1977 esce, per le Edizioni dell’Urbe, la raccolta “Fucino mio Paese”.
E’ la raccolta alla quale chi vi parla è più affezionato ed è la
raccolta della piena maturità poetica e artistica di Romolo Liberale.
E’ una raccolta di una bellezza struggente a livello poetico e
di una grande importanza a livello di testimonianza civile, poetica e
morale.
Alcune di queste liriche furono scritte durante la dolorosa
esperienza del carcere patito da Romolo per lottare con i suoi cafoni
nell’intento di restituire le terre del Fucino ai Marsicani e un
avvenire a questa gente. Sono le terre su cui quattro generazioni
contadine costruirono per il principe
“un regno con fatiche senza canto,
pensando lontane albe di speranza
entro lunghi tramonti di pena”.
La descrizione delle lotte e dei soprusi patiti da questa gente è
aspra, ma il linguaggio mantiene sempre una sua serena e forte liricità
come nell’ “Ode ai 33 martiri di Capistrello” già citata, figli
sfortunati anche loro della Marsica, periti sotto un altro piombo di un
altro usurpatore.
I nostri contadini caduti per la giustizia e per il progresso,
tuttavia, sono tutti uguali, da Celano a Lentella a Ortucchio, da
Capistrello a Melissa, da Torremaggiore a Montescaglioso.
Il linguaggio, si diceva, non perde mai quella liricità necessaria e
opportuna per descrivere la sua terra, la Marsica e il Fucino:
“E’ una terra che fu lago,
non ha monti né mare,
terra di principi saccheggiatori
e di api in cerca di luce e di profumi”.
Romolo Liberale è poeta della speranza e perciò dell’uomo e
l’incantevole, quasi sognante descrizione di Tommaso, un compagno, ne è
un mirabile esempio:
“Racconta ricordi,
l’aratro di legno,
la fame,
la guerra che uccide;
la lotta sofferta
che crea momenti di gioia;
i piedi gelati,
le gambe dolenti su duri pedali”.
E ricordando la stagione degli scioperi a rovescio:
“I picchi, le zappe il badile
la jeep infuriata
le ostili divise,
i mitra impazziti,
il fuoco di piombo
le urla la rabbia…..
E i morti raccolti tra pozze di sangue
e il pianto e le donne vestite di nero,
i figli smarriti
le ore sommerse dai lutti,
le ore spezzate
ed a pezzi raccolte e composte
nel tempo che passa
invocando speranze….”.
Questi personaggi semplici, umili, provenienti dal mondo contadino come
Tommaso, come Andrea, sono gli eroi di cui si nutre la poesia di Romolo e
sono le migliori occasioni per parlare a tutti gli uomini:
“Parlate dell’uomo
come delle stagioni
che non danno
ma chiedono giorni”.
Questa raccolta riesce ad esprimere l’amore immenso che Romolo nutriva per la sua terra e per la sua gente:
“Io conosco le acque del Giovenco
dove si specchiano
i colori delle stagioni
e si specchiano
le aurore e i tramonti del Fucino”.
Esprime, inoltre, la soavità e la delicatezza, oggi del tutto smarrite,
con le quali descrivere una bella immagine femminile, l’umile venditrice
di fragole di Venere:
“Aveva gli occhi
color di prato a primavera
e la bocca
come una melagrana aperta”.
E’ una raccolta che rivendica la centralità della poesia, il ruolo del poeta e la sua funzione nella società:
“Amate il poeta,
amate il suo canto,
amatelo
solo voi che sapete
che i poeti nascono
perché l’uomo non dimentichi di essere uomo”
“Vorrei che la mia voce
avesse la forza di mille tuoni
per gridare
a voi contadini del Fucino
che per essere
bisogna sapere
e per sapere
bisogna essere.
Solo così i nostri passi
segneranno il cammino dei giorni”.
Ed è emblematico che Liberale chiuda la raccolta pensando ai figli, ai giovani, al futuro perché avremo quello che cercheremo:
“Le parole che vi dico
nacquero dall’idioma delle nonne
e mi entrarono nel cuore
come tagli di falci affilate
e come i fiori delle siepi spinose del Fucino.
Con quelle parole
vi dico che cerco ancora
come ho cercato sempre
nella rossa casa dei miei sogni
angoli di luce immacolata
dove non v’è posto per magie e pugnali
e dove il nome alto che ci demmo
non porta segni di congiure”.
Il confronto con la realtà religiosa non solo rappresentata
istituzionalmente dalla Chiesa e dalle gerarchie ecclesiastiche, ma
soprattutto fatta di riflessione sui destini dell’umanità, sul
significato della vita e sull’impegno per i poveri e per le classi
sociali più deboli e sfruttate, è sempre stato un elemento su cui Romolo
Liberale ha voluto tornare nelle sue poesie e che ha caratterizzato la
sua personale ricerca umana e artistica.
Egli, infatti, intitola “Parabole” una raccolta di poesie che esce nel 1971, edita ad Avezzano per i tipi della Eirene.
Le parabole, com’è noto, erano narrazioni inventate che avevano,
però, il prezioso scopo di trasmettere un messaggio, un insegnamento. E
così Romolo Liberale trasforma le sue poesie in tante parabole, dalla
prima che apre la raccolta e che presenta se stesso:
“Non sono mai stato seduto
su un banco di scuola media,
non ho mai varcato
la soglia di una scuola liceale,
non so com’è fatta
un’aula universitaria”
oppure
“Le mie parole
non avranno mai
il dolce sapore di una carezza.
Le mie parole
conoscono solo
l’eco della mia terra
e le ore
che sono le ore
della tristezza
e della gioia
della gente che conosco
e della gente che amo”.
Alla dolcezza e alla tenerezza del ricordo e dell’esaltazione delle
umili origini e degli insegnamenti da lì provenienti si alterna
l’osservazione ironica, talvolta caustica e dura, dei rappresentanti di
quel potere tanto crudele e tanto lontano dalla gente umile dalla quale
Romolo proviene e che Romolo ama così tanto. Così si racconta la
parabola dell’amore dei ricchi e dell’amore dei poveri:
“L’amore dei ricchi
rassomiglia a quello dei rospi:
si fa nel fango.
L’amore dei poveri
rassomiglia a quello dei fiori:
si fa al sole”,
contro l’ipocrisia e ogni pregiudizio, contro la superficialità e per
una scelta di vita che predilige il ricordo che è alla base della nostra
storia. La raccolta si conclude, infatti, con la parabola del memento
con questi versi:
“E ricordatevi,
ha detto l’uomo
venuto dal cuore dell’uomo,
questo non è tempo di silenzi.
E chi non ascolta
già porta la morte nell’anima”
Nel frattempo Romolo sviluppa una serie importantissima di
collaborazioni con importanti artisti a livello nazionale e
internazionale attraverso un metodo sperimentale di contaminazioni tra
verso poetico, musica, discipline pittoriche e plastiche, che daranno
alla luce le famose “cartelle” di Romolo Liberale e che vedranno la
partecipazione, solo per fare qualche nome, di artisti del calibro di
Guttuso, Treccani, Gismondi e tanti, tanti altri ancora. E’ un periodo
fecondo che consegna l’intellettuale Romolo Liberale all’attenzione del
panorama nazionale. Romolo,tuttavia, non dismette né trascura l’antico
amore, la poesia.
Nel 1996 vede la luce, per i tipi delle edizioni Tracce di Pescara, il
volume “Io dico Buon Anno”. La raccolta racchiude composizioni che vanno
dal 1976 fino al 1996, quindi un ventennio.
E’ un ventennio, tuttavia, importante perché tante cose sono accadute
nel mondo, il mondo è cambiato e Romolo vuole interpretare le ansie, le
speranze, le paure che accompagnano ogni cambiamento con fiducia e con
amore.
Vuole accompagnare un mondo nuovo che nasce con la gioia di un augurio, di una poesia augurale:
“Io dico Buon Anno
alle speranze degli uomini
e ai pensieri che le illuminano.
Io dico Buon Anno
al silenzio dei fucili
e alle bandiere della dignità.
Io dico Buon Anno
agli orologi dei carcerati
e a tutte le attese.
Io dico Buon Anno
ad ogni nota di musica
e alle razze di ogni colore.
Io dico Buon Anno
a tutte le lingue
del mondo” .
Abbiamo, in queste poesie, un’altra atmosfera, si nota il desiderio di voler sperare nel domani e soprattutto nell’umanità:
“Pensare
essere
perché ogni giorno
sia fatto anche di te
e tu delle cose di ogni giorno”.
La speranza ci accompagna al tema della pace quando:
“Con occhi contadini
sognanti stagioni di promesse,
madri feconde di erbe,
amanti di colori
anche noi diciamo buon anno
all’anno che viene
perché non conosca
alberi d’acciaio per la notte del nulla
ma i nostri saluti,
i nostri pensieri,
la nostra amicizia”.
E nel concludersi degli anni è comune il pensiero all’amore:
“Amore
è il continuo farsi delle cose
ed è l’eterno volgere delle stagioni,
è tenere ansia di passi sconosciuti
ed è il ripetersi insieme
amore amore.
Anche il tic-tac di orologi
che segnano le attese trepidanti,
è levarsi di arcobaleni nella storia
per dire il tempo alto dei sereni”.
Tra il 2007 e il 2009 Romolo Liberale pubblica sotto forma di libretti
in sedicesimo, quasi sul modello dei libretti di lettura teatrale, due
raccolte di poesie: la prima, intitolata “Sicut Laica Religio”, premiata
col prestigioso riconoscimento del Premio S.Egidio, è un’intensa
riflessione riguardante la condizione umana e il rapporto tra la libertà
di pensiero e la religione. Romolo, a tal proposito, sviluppa una delle
sue tematiche preferite e cioè quella relativa al rapporto
uomo-religione, tra laicismo e fede religiosa. La figura di Cristo viene
descritta nella sua grande carica di umanità dov’è fuor di ogni dubbio
il significato delle parole di Cristo e la loro collocazione. Così, ne
“La sentenza”, leggiamo:
”Il Sinedrio riferì: “Ho detto che tutti gli uomini sono fratelli, che
onore sarà per coloro che libereranno gli schiavi, che occorre cacciare i
mercanti dal Tempio, che è onesto pagare la giusta mercede all’operaio,
che mai un ricco entrerà nel regno dei cieli”.
E nella poesia “La creazione” ribadisce la netta separazione tra l’agire divino e l’agire umano:
“Dio creò il Mondo. Gli empi crearono il Terzo mondo dove non si
conosce il sapore del pane, il profumo dei fiori, la luce del sole, la
grazia delle stelle, il giubilo dell’amore, la gioia della speranza”.
La carità e l’umanità vengono ribadite nella poesia “Fratelli”, laddove si legge:
“Se fu vera la moltiplicazione dei pani e dei pesci e se fu vero
l’annuncio che tutti gli uomini sono fratelli, ditemi dov’è la terra in
cui è legge degli ordinamenti dar da mangiare agli affamati, dar da bere
agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, assistere
gli infermi, confortare i carcerati, seppellire i morti, farsi fratello
dei fratelli”.
Le poesie conclusive, da “Sangue mischiato” alla drammatica “Stabat
Mater”, sono un disperato e forte richiamo alla pace e alla messa al
bando di ogni guerra e di ogni forma di negazione dell’uomo.
La silloge successiva “Veritatem libere servio” è dedicata ad una
rilettura critica di alcuni episodi della Bibbia alla luce
dell’affermazione, ad opera del poeta, della filosofia del dubbio e
della condanna delle idee forti e assolute, generatrici di ogni forma di
violenza.
Ne “La lezione dell’Olimpo” si legge:
“Nessuno tra gli dei del Pantheon osò proclamarsi unico e assoluto…. gli
anatemi e i patiboli, i roghi e gli stermini vennero con i secoli
oscuri della certezza unica e assoluta chiusa ai lumi della ragione”.
In questa riflessione poetica, dunque, si punta il dito contro le
ideologie assolutistiche e contro ogni forma di totalitarismo. Nel
destino umano non ci sono popoli eletti o vendette da consumare per
volontà degli dei. Nel destino umano non può che esserci la strada della
comprensione e della pietà.
“Ad un tratto tra le colonne del tempio una voce di fuoco si levò:
“Scagli la prima pietra chi è senza peccato”. Le pietre caddero dalle
mani minacciose, ma furono raccolte dai perversi di tutti i tempi che
ancora oggi dai lupanari del potere le scagliano contro quelli che
credono al limpido rigenerarsi dell’uomo nel gesto sublime dell’amore”.
Torna la condanna dell’integralismo nella lirica “Assoluto” dove si legge:
“Dio è eterno,
Satana è dappertutto.
Il Re è il Sole che non tramonta.
Lo zar è zar per volere divino.
Il Papa è infallibile.
Il dogma vale più della ragione.
Gli Ebrei sono il popolo eletto.
Gli Ariani sono la razza superiore.
Il Duce ha sempre ragione.
Il Profeta sa il futuro.
L’uomo se obbedisce, è virtuoso.
L’uomo, se si ribella, è iniquo.
Quanti delitti in nome dell’Assoluto!”.
Torna in queste liriche la vena politica e civile di Romolo Liberale
soprattutto quando si ribella al pregiudizio e alla discriminazione come
nella lirica “”Sha’Ul”, dove si egge:
“Dopo tanto non mi piacque,
l’infelice appello ai riottosi efesini:
le mogli siano sottomesse ai mariti.
E non mi piacque l’assurdo monito
“Schiavi, obbedite ai vostri padroni!”
Il grido del sangue dei caduti
per la dignità della donna
e per la liberazione degli schiavi
ancora rimane sulle nequizie dei secoli”.
E a questo grido si mescola la ricerca di Cristo:
“Ti ho cercato Cristo,
ti ho chiamato Cristo.
E i bagliori degli ori,
il rumore del Jet,
lo splendore dei templi
mi hanno rubato il tuo volto,
ti hanno nascosto la mia voce”.
Nel 2012 arriva l’ultima raccolta poetica di Romolo Liberale, “La rosa
le spine il profumo”, raccolta già analizzata anche in occasione di
quell’indimenticabile serata che il popolo della Marsica gli tributò in
occasione del suo novantesimo compleanno.
Si tratta di una pubblicazione fortemente voluta dalla sua compagna di
vita Mirka e contiene una serie di poesie attinenti la vita di Romolo, i
suoi affetti, i suoi ricordi che conferiscono il carattere di una
tenera e significativa presa d’atto col tempo di un bilancio di una vita
intensa ma mai paga di sapere, di curiosità, di condivisione col mondo e
cogli altri.
E Romolo volle iniziare quest’ultima raccolta dedicandola a Mirka con queste mirabili parole:
“Se è vero che le aurore
e i tramonti
aprono e chiudono
a parabola del giorno…..
è anche vero
che tu sei vera e chiara
come i giorni e le cose
che ti fecero.
E’ anche vero che
insieme
con parole senza polvere
nella limpidezza dell’idea
e nel fiume della vita
oggi e sempre
vivendo la sera come l’alba,
continuo a farti mia
con nomi alti
che sanno d’antico e d’infinito
amica
compagna
sposa
madre
da scrivere con colori d’arcobaleno
su un filo d’erba
sulle ali di una rondine
sulla vetta di un monte,
su un raggio di sole”.
Nella raccolta non mancano riferimenti al paese natio:
“E sei tu mio paese
che ogni istante ti fai mio
per dirmi quel che fosti
per dirmi quel che sono”,
unitamente ad altre liriche già pluripremiate e già note.
Restano, comunque, alcune tematiche importanti che hanno contraddistinto
fin dalle origini la poesia di Romolo: la lotta per gli umili, per gli
sfruttati, l’omaggio alla donna creatura generatrice d’infinito:
“Anche in lontani tempi
di tenebre rosa
sei stata in grovigli di sterpi
e sei corsa sfidando ombre
fino al sole
che oggi
ti vede tenero fiore
del tempo nuovo
donare agli spazi
libere colombe
per dire il tuo sogno di libertà
aperto ad orizzonti
che attendono cetre
per quel che fosti
e sei luminosa generatrice d’infinito”.
Ci sono poesie di una bellezza e di una intensità struggente: da quella
nella quale interroga i compagni circa una storia comune che sembra
esaurirsi a quella rivolta al popolo d’Israele che viene scongiurato
affinché non ripeta quegli orrori che ha dovuto subire, al tenero
augurio fatto ad un giovane nel giorno dei diciotto anni:
“..e con la fatica dell’essere
come si fanno i palpiti della vita
e rispondere alle chiamate del tempo
eccomi perché tu,
tempo del mio tempo,
mi hai plasmato
facendomi uomo”.
C’è anche spazio per ricordare un vecchio compagno di lotte, Bruno Corbi, in “Ancora per le strade che amammo” con questi versi:
“Il giorno in cui i tuoi giorni finirono….
e ti incamminasti
come svelto campagnolo
a piedi scalzi
per il viaggio senza fine….
e tu
scalzo
non ancora cammini
per le amare contrade che amammo
e le strade e le case
e gli alberi e il vento
e gli occhi della gente
che chiede il mattino
ci restituiscono
i tuoi pensieri e le tue parole
per ricordarci con la voce delle ore piene
che i fiori nascono dal cuore dell’uomo
e che anche gli uomini
sanno costruire le stelle”.
Al ricordo della figura materna, immortalato con i versi:
“Dirò madre alle albe serene
e alle sere che chiudono
i giorni con cui ogni giorno
mi faccio figlio.
Dirò madre al silenzio che ti avvolge
e alle parole che non dici
per purificarmi nell’affetto
dei giorni con cui ogni giorno
ti faccio madre”,
alterna il ricordo del piccolo Igbal, il bambino pakistano legato al
telaio per tappeti e tragico emblema dello sfruttamento del lavoro
minorile:
“e ogni uomo dimenticato ti chiamò amico
ogni madre infelice ti chiamò figlio
ogni bambino offeso ti chiamò fratello”.
Per concludere con lo splendido omaggio agli amici aquilani feriti dal terribile terremoto, ai quali Romolo così parla:
“datemi una pietra che sia
urlo memoria gogna
e perpetuo vituperio
quale risposta di chi pianse
al bestiale sghignazzo
della iena ridens
nell’instante impazzito
del turbine e della morte.
Mi basta una pietra
per elevare un monumento
al vostro dolore
alle vostre speranze”.
Il viaggio nella poesia di Romolo volgerebbe al termine, ma nei
giorni successivi alla sua morte, frugando nel studio tra centinaia di
libri, quadri, manoscritti, i suoi figli con Mirka hanno rinvenuto un
prezioso inedito composto da un centinaio di poesie Haiku, ovvero un
genere poetico giapponese che ha alla radice la cultura zen.
E’ un modo di poetare molto semplice, in terzine che assumono il senso di aforismi per via del contenuto su cui vertono.
La versatilità del genere di Romolo è ancora una volta sorprendente,
unitamente alla sua curiosità e alla sua voglia di sperimentare nuove
culture, nuove forme artistiche, nuovi strumenti poetici. Citerò,
pertanto, solo alcune poesie haiku per ragioni di brevità:
“non affittare la tua coscienza
non ingabbiare i tuoi pensieri
illumina le tue utopie”
“mi sento un grumo di tutto
dell’attimo e dell’eternità
di quel che è stato e che sarà”.
“Dove fosti con la mente
torna col cuore
per rigenerarti come uomo”.
“Nella morte delle cose
il destino del futuro
la continuità della vita”
e qui ci fermiamo.
Si potrebbero dire tante parole ancora sulla poesia e su ogni ricordo
che Romolo Liberale ha lasciato alla sua terra, ai suoi amici, ai suoi
familiari, ma la commozione prevarrebbe e questa sera, come avrebbe
voluto sicuramente lui, non c’è spazio per le lacrime ma solo per il
ricordo, per la riflessione e per il proponimento di costruire un domani
migliore, un mondo nuovo, anche attraverso l’esempio che traspare dalle
sue opere e dalla sua vita.
Perciò, per tutto questo, grazie Romolo!
Avezzano, 8 febbraio 2014
Alberto Marino
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